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Il dibattito tra i mass media sul tema del trattamento sanitario obbligatorio nell’ambito delle vaccinazioni è in crescita continua.
Da un lato, ci sono i timori destati dai ventilati riflessi dannosi per la salute del paziente, specie per i minori; dall’altro lato, le temute ripercussioni sulla collettività in caso di rifiuto del trattamento.
Il contesto normativo di riferimento si staglia oggi tra le coordinate giuridiche sancite dalla Costituzione e dalla riforma, per cui affrontiamo il principio della sicurezza delle cure e la disciplina della responsabilità medica.
Pietra miliare di questo percorso è il primo comma dell’art. 32 della Costituzione che tutela la salute quale diritto fondamentale dell’individuo, inviolabile e irrinunciabile, sia come interesse della collettività.
Il diritto della collettività va inteso come “quella forma di attenzione qualificata della molteplicità a vedere affrontato con efficacia e tempestività l’ampio spettro di questioni e problematiche inerenti il tema della salute”.
Ne sono esempi pilota la creazione di strutture sanitarie che rispondono alle esigenze di cura in un territorio, la predisposizione dei soccorsi d’urgenza, le misure a tutela della salubrità dei luoghi di lavoro o di un’area a forte potenziale epidemico.
Altre volte, il diritto del singolo alla scelta di sottoporsi alle cure, sancito dal principio di autodeterminazione [1]art.2 Cost., può confliggere con l’interesse della collettività a non vedersi minacciata da chi non voglia assumere cure.
Si pensi, ad esempio, a chi decida di partecipare ad una lezione universitaria pur affetto da un’influenza contagiosa, magari credendo di tamponare il malanno con l’uso di un farmaco, salvo poi “infettare” metà del corso.
Può il febbricitante essere escluso dalla lezione? Nelle vie di fatto, forse da qualche prodigo studente, altrimenti dall’autorità a cui siano conferiti i relativi poteri ed idonei strumenti attuativi.
La risposta è, infatti, contenuta nel secondo comma dell’art.32 Cost. che prevede che solo a fronte di una previsione di legge, il singolo potrà essere obbligato a sottoporsi a specifici trattamenti sanitari.
Questo imperativo di cura viene soppesato, al contempo, dal controlimite del rispetto della persona umana, cioè in sostanza la cura deve essere somministrata solo se non implica una deturpazione o una violenza a cagione del singolo.
La Legge Gelli, entrata in vigore il 01.04.2017, introduce nel nostro ordinamento il principio della sicurezza delle cure [2]art.1, riformando la responsabilità dell’esercente le professioni sanitarie e delineando al contempo le coordinate operative di tutti coloro che operano nell’articolato procedimento del trattamento sanitario, cioè del percorso di cura a cui il paziente decide di sottoporsi.
Cura che mira ma non corrisponde alla guarigione, quest’ultima concretizzandosi nell’esito positivo della prima.
Il principio di sicurezza della cura va, quindi, inserito nel più ampio terreno del diritto alla salute tanto avendo rispetto del diritto del singolo quanto dell’interesse collettivo, e si concretizza nella prevenzione e nella gestione del rischio, cioè nel porre in essere tutte quelle misure che per la scienza odierna sono note e di comprovata efficacia: cc.dd. “linee guida” per evitare la possibile minaccia alla salute o per contenerne i danni quando già minata (art.5).
Tali linee guida, dopo alcuni tentennamenti risolti grazie all’elaborazione giurisprudenziale, con il supporto delle bestpractices, sono da oggi disciplinate in via regolamentare dal Ministero della Salute.
Ciò significa che le prestazioni preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale seguono un loro percorso delineato dalla normativa di settore.
Si può individuare, allora, la ratio della riforma che mira, per un verso, a tutelare i pazienti che saranno d’ora in poi seguiti in uno o più percorsi verificati ed efficaci; per altro verso, a consentire agli operatori sanitari di scegliere il trattamento sanitario più opportuno tra la rosa di quelli accreditati.
Sembra che il Legislatore abbia insomma preferito tipizzare la scienza accreditata, cioè vestirla di carattere normativo, al fine di agevolare l’abbandono della c.d. “medicina difensiva”, pratica tanto superflua quanto gravosa per le casse dello Stato.
Riassumendo, l’ordinamento giuridico: – riconosce e tutela tanto il diritto alla salute del singolo quanto della collettività; – sancisce il principio della sicurezza della salute; – definisce i percorsi di cura che il personale sanitario deve rispettare e seguire.
Tra le vaccinazioni, generalmente a carattere volontario, si distinguono quelle obbligatorie, rientranti nel T.S.O., aventi carattere di prevenzione e per le quali il consenso informato e la partecipazione devono trovare apposito stimolo con iniziative di natura esplicativa, ai sensi degli artt. 33 e ss. della Legge n.833/1978.
Le vaccinazioni obbligatorie sono prevalentemente concentrate nel periodo dell’infanzia e riguardano i minori di età fino ai quindici anni. Per la loro somministrazione sono i genitori o gli aventi responsabilità genitoriale – un tempo potestà genitoriale, ecco come si passa da un diritto ad un dovere – a far sì che i minori vengano sottoposti ai trattamenti di prevenzione.
Balza alla cronaca che la diatriba, non solo scientifica, creatasi sulla “facoltizzazione coatta” del trattamento obbligatorio ha di recente condotto alla radiazione di un medico curante quale responsabile del trattamento sanitario non somministrato.
Tale “reazione lampo” da parte del Ministero della Salute è il frutto dell’applicazione concreta della Legge Gelli.
In passato la sicurezza delle cure poteva essere deviata o perfino minata da trattamenti non supportati scientificamente e tuttavia non far patire conseguenze, né celeri né severe, al personale sanitario che li applicava, perché sempre da sottoporre a vaglio giudiziale del consulente [3]in sede civile o del perito [4]in quella penale nominato dal Giudice.
Oggi, invece, il mancato rispetto delle linee guida comporta la violazione della normativa regolamentare di dettaglio, completamento naturale del quadro delineato dalla fonte primaria.
Pertanto, salvo che il medico non provi le ragioni specifiche che abbiano reso necessario un trattamento diverso da quelli indicati in via regolamentare, emergeranno profili di illiceità del suo operato.
L’effetto immediato e diretto che si vuole perseguire, pertanto, è quello di disincentivare iniziative di una parte del personale sanitario che, ben lungi dal seguire finanche un metodo scientifico, offra servizi non qualificabili come cure a pazienti disposti “a tutto”.
In conclusione, con l’entrata in vigore della Riforma Gelli è stato tracciato un percorso di tutela bivalente, sia in favore del paziente, sottoposto alle cure previste dalle linee guida, sia del personale sanitario, che opera seguendo la scienza accreditata.
Risposta, quindi, che ha voluto disciplinare tanto la quotidiana “frenesia di corsia” quanto ridurre il più possibile che trattamenti “poco scientifici” vengano iniettati nel Sistema Sanitario Nazionale senza il controllo del Ministero della Salute.
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Avvocato Giovanni Paolo Sperti
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